L'Alimentazione nell'antica Roma
RICETTE IN MARZIALE
Si spumet rubra conchia tibi pallida testa,
lautorum cenis saepe negare potes.
Se bollono per te in una rossa pentola pallide fave,
alle cene dei ricchi puoi spesso rinunciare.
Cludere quae cenas lactuca solebat avorum,
dic mihi, cur nostras inchoat illa dapes?
Quella lattuga con cui solevano terminare i pasti dei nostri avi,
dimmi, perché oggi fa da antipasto?
Ne tibi pallentes moveant fastidia caules, nitrata viridis brassica fiat aqua.
Perché questi pallidi cavoli non ti diano la nausea,
fa' inverdire il broccolo in acqua nitrosa.
Fila Tarentini graviter redolentia porriediati quotiens, oscula clusa dato.Ogni volta che hai mangiato graveolenti fettine
d'un porro di Taranto, bacia a bocca chiusa.
L'ALIMENTAZIONE NELLA POESIA DI ORAZIO
Davvero numerosi sono i riferimenti all’alimentazione all’interno della poesia di Orazio
[1].
Il nostro poeta manifesta sempre una preferenza verso i cibi semplici, sani e poco sofisticati. Bisogna però dire che i suoi gusti frugali sono anche influenzati dalla necessità di non spendere troppo, come si può osservare anche per ciò che riguarda il vino, Orazio dice spesso di non potersi permettere i cibi più prelibati e costosi. Ma il bisogno di accontentarsi di vivande a poco prezzo non obbliga necessariamente il poeta a mangiare male. Al contrario, Orazio sembra sempre riuscire a ricavare pasti invitanti anche dagli alimenti più comuni. Anche nella cucina, egli riesce a mettere in atto la sua moderazione e il suo buon gusto. Insomma, essere invitati a pranzo da lui significa ritrovarsi in un ambiente semplice ma accogliente e mangiare pietanze semplici ma cucinate con cura.
Quando invece Orazio viene invitato a pranzo da altre persone, diventa per noi una guida che ci fa scoprire le abitudini alimentari dei Romani del suo tempo. Con accuratezza e con la solita disincantata ironia, ci racconta i banchetti più sontuosi e i cibi più prelibati, ma anche gli eccessi e il cattivo gusto che talvolta alcuni Romani palesano.
Si potrebbe dunque affermare che Orazio vive due dimensioni dell’alimentazione: una privata e domestica, l’altra sociale e conviviale. In entrambe le situazioni, comunque, il poeta appare come un amante della buona cucina
[2], un buongustaio capace di apprezzare o criticare con validi argomenti i cibi che gli vengono offerti
[3].
I.1. Pasti frugali e alimenti poveri
I gusti alimentari di Orazio sono sempre improntati all’equilibrio e a una certa sobrietà. Opponendosi ai lauti e indigesti banchetti romani, il poeta ama mangiare in modo leggero, scegliendo delicate malve (malvae), cicoria (cichorea) e olive (olivae).
Hor. carm. I 31, 15-16:
(«Mi nutrono le olive, la cicoria e le malve leggere»)
Del resto Orazio sa bene che, tante volte, i cibi troppo sofisticati sono soltanto una specie di moda, non presentano cioè caratteristiche nutrizionali migliori rispetto a quelle dei cibi più comuni.
Orazio non si lascia ingannare dalle mode e mostra di possedere una saggezza di tipo popolare: quando si ha fame per davvero, un po’ di pane col sale (cum sale panis) andrà benissimo per calmare lo stomaco.
Hor. sat. II 2, 17-18:
(«Il pane col sale calmerà bene i latrati dello stomaco»)
Il poeta infatti preferisce il semplice pane alle gustose focacce (liba) e alle torte con il miele (mellitae placentae).
Hor. epist. I 10, 10-11:
(«Io rifiuto le focacce, preferisco il pane, più gustoso delle torte con il miele»)
La carne d’agnello (agnina) e la trippa (omasum), a Roma, sono reputati cibi poveri, dal gusto piuttosto grossolano e volgare. Infatti un tale Menio, attore di strada, quando non guadagna niente si sfama proprio con questi alimenti, che costano pochissimo.
Hor. epist. I 15, 34-35:
(«Mangiava poveri piatti di carne d’agnello e di trippa, in quantità tale che sarebbe bastata per tre orsi»)
Il cavolo (caulis) è una verdura molto comune e anche molto utilizzata in cucina; per renderlo più appetitoso lo si può condire con dell’aceto stagionato (vetus acetum).
Hor. sat. II 2, 58-62:
(«Versa sui cavoli qualche goccia d’olio, non risparmiando invece aceto vecchio»)
I contadini, gente semplice, non sono schiavi delle mode della metropoli: per loro un piede di prosciutto affumicato (fumosa perna) e un cavolo (caulis) rappresentano un pasto più che dignitoso.
Hor. sat. II 2, 117:
(«[…] un cavolo con un piede di maiale affumicato»)
Anche l’aglio (alium) è un alimento povero, usato soprattutto per condire e per dare sapore agli altri cibi, ma va usato con una certa cautela perché il suo gusto può causare grave fastidio. Orazio, per esempio, sembra proprio detestarlo nella maniera più totale: addirittura ipotizza che sia stata la strega Canidia a preparare la tremenda pietanza (dapes) con aglio che gli è capitato di mangiare!
Hor. epod. 3, 1-8:
(«Se qualcuno ha strozzato la vecchia gola del padre con empia mano, sia condannato a mangiare l’aglio, più terribile della cicuta. O forti intestini dei mietitori! Forse sangue di vipera è stato mescolato di nascosto con queste erbe? O forse è stata Canidia a preparare questa terribile pietanza?»)
Come in tutte le cose, avverte però Orazio, anche nella ricerca di un’alimentazione semplice non bisogna esagerare. Un vitto sobrio è molto differente da un vitto da spilorci. Un tale Avidieno, che per risparmiare mangia solo olive vecchie (quinquennes oleae) e bacche selvatiche (silvestria corna), è allora sicuramente da biasimare.
Hor. sat. II 2, 57:
(«Olive vecchie di cinque anni e corniole di bosco»)
I.2. Banchetti sontuosi e alimenti sofisticatiE’ dunque evidente che a casa di Orazio si mangia bene, ma in modo semplice.
Quando invece il poeta è invitato ai sontuosi banchetti organizzati dai più ricchi cittadini romani, si trova di fronte a manifestazioni di opulenza che, per quanto raffinate, tante volte sconfinano nell’esagerazione e nell’ostentazione fine a se stessa
[4]. Di conseguenza il poeta si serve a volte dell’ironia per ridicolizzare quei Romani che offrono banchetti tanto costosi quanto ridicoli e di cattivo gusto.
Nel passo seguente, Orazio sostiene che chi ha veramente fame preferisce i cibi più semplici, per esempio la carne di gallina. I ricchi invece, oziosi e annoiati, non hanno in realtà neppure appetito: per questo cercano sempre cibi insoliti come le ostriche (ostreae), lo scaro (scarus), il francolino (lagois peregrina) e il pavone (pavo).
Hor. sat. II 2, 20-24:
(«Cerca i condimenti nella fatica fisica: né l’ostrica, né lo scaro o il francolino possono piacere al commensale pallido e grasso a causa dei grandi vizi. Tuttavia a fatica resisterai a deliziare il tuo palato qualora ti fosse imbandito un pavone al posto di una normale gallina»)
Il cinghiale (aper) e il rombo (rhombus) sono cibi prelibati che devono essere consumati quando non sono più freschissimi. Ma quando lo stomaco è affaticato dai vizi eccessivi, è molto meglio limitarsi ai ravanelli (rapulae) e all’insalata amara (acida inula).
Hor. sat. II 2, 41-44:
(«Il cinghiale e il rombo, se freschi, hanno un cattivo odore, ma quando la troppa abbondanza affatica uno stomaco malato, esso preferisce i ravanelli e l’insalata amara»)
Orazio continua nella sua satira contro le stravaganze alimentari dei romani suoi contemporanei. I cuochi romani, che non sanno più cosa inventare per accontentare i loro padroni, adesso cucinano anche la cicogna (ciconia).
Hor. sat. II 2, 49:
(«La cicogna stava nel sicuro nido»)
La buona cucina è ormai solo una questione di moda. I ricchi vogliono a tutti i costi apparire raffinati e sofisticati, facendo cucinare i cibi più inverosimili. Se qualcuno propone una nuova ricetta, subito viene imitato da tutti. Come al solito, Orazio osserva con disincantata ironia questo assurdo fenomeno di costume. Se un alimento pessimo, per esempio gli smerghi arrosto (mergi assi), diventa un cibo “alla moda”, allora tutti lo vogliono mangiare…
Hor. sat. II 2, 51:
(«Se qualcuno ora dicesse che gli smergi arrosto sono squisiti […]»)
Orazio ha una notevole conoscenza dei vari cibi e dei modi di cucinarli, abbinarli e servirli. Tra i piatti di carne si trovano spesso l’arrosto (assum) e il bollito (elixum). Talvolta però gli abbinamenti di carni proposti dai cuochi romani sono piuttosto stravaganti e lontanissimi dal gusto di noi moderni. A Roma, per esempio, può capitare di servire insieme tordi (turdi) e frutti di mare (conchylia).
Hor. sat. II 2, 73-74:
(«Non appena avrai mischiato l’arrosto con il lesso e i frutti di mare con i tordi»)
La carne di pollo (pullus) e quella di capretto (haedus) sono molto utilizzate nelle cucine romane.
Fondamentale è poi il ruolo della frutta essiccata, molto usata perché di facile conservazione. L’uva passa (pensilis uva) e i fichi secchi (fici) sono serviti in quasi tutti i pasti. Molto frequente è inoltre l’impiego delle noci (nuces).
Hor. sat. II 2, 121-122:
(«Con un pollo e un capretto; allora l’uva passa addolcirà la parte finale del pasto con le noci e i fichi secchi spaccati in due»)
In alcuni passi della sua opera Orazio dimostra di possedere una cultura culinaria veramente approfondita, una conoscenza pratica specialistica che parrebbe appartenere più a un vero cuoco che a un grande poeta. Gli interessanti consigli gastronomici sono forniti da lui in prima persona oppure dalla voce di vari personaggi presenti nella sua poesia.
Attraverso la lettura si apprendono dunque varie nozioni culinarie: le uova di forma allungata sono migliori di quelle tonde, il cavolo coltivato in città va evitato perché insipido, una gallina immersa viva nel Falerno avrà una carne più tenera, i funghi prataioli sono gli unici che si possono mangiare, le more nere sono ottime per terminare i pasti, come aperitivo conviene offrire bevande leggere e non Falerno mescolato con il miele, datteri di mare, conchiglie, insalata e vino bianco di Coo sono ottimi contro la stitichezza, i frutti di mare sono tra loro molto diversi a seconda della zona da cui provengono.
Hor. sat. II 4, 12-34:
(«Ricordati di servire le uova di forma allungata, perché hanno un gusto migliore e un albume più bianco rispetto a quelle tonde: esse infatti contengono nel guscio colloso un tuorlo maschio. Il cavolo che cresce nei campi asciutti è più dolce di quello degli orti suburbani: niente infatti è più insipido della verdura di un orto irriguo. Se ti arriva improvvisamente un ospite in ritardo, affinché la gallina non risulti dura al palato avrai l’accortezza di immergerla viva nel Falerno: ciò la renderà tenera. I funghi di prato sono di ottima qualità, degli altri non ci si deve fidare. Passerà l’estate ben sano colui che finirà il pasto con more nere, raccolte dalla pianta prima che il sole sia troppo forte. Aufidio mescolava il miele con il denso Falerno, sbagliando: a uno stomaco vuoto conviene offrire solo bevande leggere. Preparerai invece meglio le viscere con qualche bevanda più semplice. Se l’intestino sarà stitico, risolveranno il problema i datteri di mare, le conchiglie di poco prezzo e un po’ di insalata, non senza il vino bianco di Coo. La luna nuova fa nascere le molli conchiglie, ma non ogni mare produce conchiglie di qualità: la peloride del lago Lucrino è migliore del murice di Baia, nel Circeo nascono le ostriche, nel Miseno i ricci, la raffinata Taranto è nota per le conchiglie aperte a forma di pettine»)
Continuando questo nostro viaggio nella cucina romana del I secolo a.C. si ottengono altre informazioni: la carne del cinghiale umbro è di gran lunga migliore di quella del cinghiale laurentino, i caprioli allevati nei vigneti spesso sono insipidi, le lepri gravide hanno una carne raffinatissima.
Hor. sat. II 4, 40-44:
(«Il cinghiale umbro, nutrito con ghiande di leccio, riempie il piatto rotondo di colui che evita la carne molla: infatti il cinghiale laurentino, ingrassato con erbe e canne di palude, è stomachevole. Il vigneto nutre caprioli che non sempre sono saporiti. Il buongustaio cercherà le spalle di una lepre gravida»)
Orazio è addirittura in grado di spiegare dettagliatamente la procedura di preparazione di due diverse salse. La prima è molto semplice ed è composta da olio d’oliva, vino e salamoia. L’altra, più complessa, si ottiene con olio d’oliva, erbe tritate e zafferano.
Le mele di Tivoli sono particolarmente belle alla vista, ma il gusto delle mele del Piceno è molto migliore.
L’uva venucola è ottima per preparare conserve, quella di Albano va bene per essere essiccata.
Hor. sat. II 4, 63-72:
(«E’ opportuno conoscere le qualità di due diversi tipi di salsa. Una è semplice ed è composta da olio fresco di oliva, che si dovrà poi mescolare con molto vino e con salamoia, non diversa da quella che stagiona negli orci di Bisanzio. L’altra si prepara bollendo questa con erbe triturate e lasciandola raffreddare sparsa di zafferano corico, aggiungendo sopra olio di oliva spremuto nei torchi di Venafro. Le mele di Tivoli sono più belle a vedersi, ma meno buone di gusto rispetto a quelle del Piceno. L’uva venucola va bene per le conserve, quella di Albano sarà migliore per farla essiccare»)
Orazio, sebbene sia di gusti piuttosto frugali, è anche spettatore e testimone dei sontuosi banchetti romani. Chi offre questi pasti vuole dimostrare la sua ricchezza e la sua raffinatezza, abbinando alla qualità dei cibi anche l’esasperata ricerca di trovate scenografiche sempre nuove e stupefacenti. Il gusto dei cibi è importante, ma ancora più fondamentale è la loro apparenza, che deve meravigliare e entusiasmare i convitati.
Nel passo seguente Orazio descrive l’opulenza degli antipasti serviti nei banchetti romani. Anche il servizio deve essere curato fin nei minimi particolari: dopo ogni portata entrano in scena due schiavetti: uno pulisce minuziosamente la tavola con un panno di porpora, l’altro elimina scrupolosamente tutte le briciole e gli avanzi di cibo.
Hor. sat. II 8, 6-13:
(«Per cominciare un cinghiale lucano […] e per contorno rape piccanti, lattughe e rafani, cibi adatti a stimolare lo stomaco languido; poi carote, salamoia e feccia di vino di Coo. Tolti questi antipasti, un fanciullo succinto pulì la tavola di acero con un panno di porpora, e un altro raccolse le briciole e gli avanzi che potessero dar fastidio ai convitati»)
Chi organizza un banchetto esorta i propri cuochi a inventare ricette sempre più stravaganti. Questo fatto porta due conseguenze: da un lato cibi sempre più impensabili compaiono sulle tavole di Roma, dall’altro anche gli alimenti più comuni vengono elaborati a tal punto da presentare un gusto totalmente insolito.
Ecco tre brani che testimoniano le tante stravaganze alimentari dei ricchi cittadini di Roma.
Hor. sat. II 8, 27-30:
(«Noi, voglio dire, mangiavamo uccelli, ostriche, pesci che avevano un gusto molto diverso da quello solito; e me ne accorsi subito, non appena mi offrì i lombi di un pesce passero e di un rombo, che mai avevo gustato prima»)
Hor. sat. II 8, 42-53:
(«Viene portata una murena, distesa su un vassoio in mezzo a granchi affogati nella salsa. Subito il padrone dice: “Questa è stata catturata gravida perché la carne è peggiore dopo il parto. La salsa è composta con tali ingredienti: olio di Venafro di prima spremitura, garo estratto da pesci dell’Iberia, vino di cinque anni ma delle nostre terre, versato durante la cottura – quando la salsa è terminata, nessun vino vi si accompagna meglio di quello di Chio –, poi pepe bianco, con un po’ di aceto che sia derivante dall’uva di Metimna. Io per primo proposi di cuocervi insieme eriche verdi e enule
[5] amare; poi Curtillo vi unì i ricci non lavati, perché i frutti di mare danno un succo migliore della salamoia”»)
Hor. sat. II 8, 85-93:
(«Poi seguirono i valletti che portavano su di un enorme vassoio una gru fatta a pezzi, cosparsa di sale e di farro, un fegato di oca bianca ingrassato di fichi succulenti, delle spalle di lepre staccate dal corpo perché di sapore molto più delicato. Infine vediamo portare anche merli dal petto rosolato e colombi senza la parte posteriore: cibi squisiti, se solo il padrone non avesse raccontato tutte le loro origini e qualità»)
Spesso la passione per la buona cucina può degenerare in dipendenza. La ricerca di alimenti sempre nuovi diventa allora la principale occupazione di tanti buongustai romani. Orazio condensa bene questo concetto nella massima seguente.
Hor. epist. I 6, 56-57:
(«Se è vero che vive bene chi mangia bene, allora andiamo dove ci conduce la gola, peschiamo e cacciamo»)
I ricchi dunque si comportano in modi spesso assurdi per ciò che riguarda l’alimentazione. Ciò non toglie che i poveri, quando osservano quegli opulenti banchetti cui non potranno mai partecipare, sono ovviamente tormentati dalla fame ma anche dall’invidia.
In Hor. epist. I 15, 34-35 si è già incontrato un povero attore di strada, costretto dalle ristrettezze economiche a mangiare solo trippa e carne di agnello. Ecco cosa pensa quando vede i ricchi Romani che mangiano grassi tordi e tranci di ventresca.
Hor. epist. I 15, 39-41:
(«“Non mi stupisco, per Ercole – diceva – se quelli sciupano i loro beni mangiando, perché non c’è cibo più buono di un tordo grasso o di un pezzo di ventresca”»)
I.3. Alimenti D.O.C.
Come succede ai nostri giorni, anche nel mondo romano del I secolo a.C. esistono zone geografiche rinomate per la produzione di un qualche particolare genere alimentare.
La salsa di pesce (garum) più famosa e prelibata, per esempio, proviene dalla penisola iberica: tutti i buongustai romani cercano di procurarsela spendendo anche somme piuttosto elevate
[6].
La Libia è celebre nel mondo antico per la sua abbondante produzione di frumento (frumentum)
[7]. Le derrate agricole prodotte in Africa vengono esportate a Roma per sfamare la sempre crescente popolazione della metropoli.
Hor. carm. I 1, 9-10:
(«Un altro è soddisfatto perché stipa nel suo granaio tutta la mietitura dei campi della Libia»)
La Sicilia è famosa soprattutto per la dolcezza della sua frutta.
Hor. carm. III 1, 18-19:
(«Le vivande della Sicilia non porteranno il loro dolce sapore»)
In Calabria invece, sempre secondo la testimonianza di Orazio, si produce un miele (mel) particolarmente delicato.
Hor. carm. III 16, 33:
(«Anche se le api della Calabria non portano il loro miele»)
Le mele provenienti dal territorio piceno (poma Picena) sono molto apprezzate a Roma. Nel passo seguente si incontra uno sciocco che si diverte a cercare di colpire il soffitto estraendo i semi dalle mele stesse.
Hor. sat. II 3, 272-273:
(«Quando estraendo i semi dalle mele picene sei felice se per caso hai colpito il soffitto, sei in te?»)
I.4. Il bon ton durante i pasti romani
Certamente nell’alimentazione romana del tempo di Orazio non si presta grande attenzione all’igiene dei cibi. Tuttavia non si deve neppure pensare che ogni trascuratezza sia tollerata. Orazio, dal canto suo, dimostra di fare attenzione alla pulizia dei piatti, dei calici e delle coppe in cui si mangia e si beve. Inoltre, in un pasto decoroso e curato, i servitori devono essere puliti e non devono assolutamente sporcare i cibi e le stoviglie.
Hor. sat. II 4, 78-80:
(«E’ causa di grandi fastidi allo stomaco il fatto che un servo tocchi un calice con le mani unte dopo aver trangugiato qualcosa di nascosto, o se una schifosa sporcizia si è incrostata in un antico cratere»)
L’acqua è un elemento di fondamentale importanza durante i pasti: oltre a essere bevuta, essa serve per essere mescolata con il vino e per lavare le mani dei commensali dopo ogni portata. In ognuna di queste tre situazioni, come parrebbe ovvio, l’acqua deve essere pura e limpida. Il problema, subito notato da Orazio, sta nel fatto che in alcuni banchetti i padroni di casa non si preoccupano assolutamente di offrire agli invitati acqua pulita.
Hor. sat. II 2, 68-69:
(«E non offrirà ai convitati acqua sporca, come fa il grossolano Nevio: anche questo è un enorme vizio!»)
[1] Sull’argomento, cfr. F. MINISSALE CAMAIONI, «Nasidieno Rufo» un personaggio da operetta (interpretazione della satira oraziana II 8), in “Atti della Accademia Peloritana dei Pericolanti” 63, 1987, pp. 211 – 218; P. FEDELI, Sull’arte di mangiar bene e di vivere felici (Hor. Sat. II 4), in “Aufidus” 21, 1993, pp. 13 – 38.
[2] Sull’argomento, cfr. M. MONTANARI, Convivio, storia e cultura dei piaceri della tavola, Bari 1989; N. VALERIO, La tavola degli antichi, Milano 1989; AA.VV., L’alimentazione nel mondo antico, a cura del Ministero dei Beni Culturali, Roma 1990; U. E. PAOLI, Vita romana. Usi, costumi, istituzioni, tradizioni, Milano 1990, pp. 78 – 89; P. VEYNE, La vita privata nell’Impero romano, Roma – Bari 1992, pp. 181 – 183; J. CARCOPINO, La vita quotidiana a Roma, Roma – Bari 19945, pp. 301 – 314.
[3] Opera fondamentale per la storia della cucina romana è il De re coquinaria (fine I secolo d.C.) di Apicio. La sua lettura è particolarmente utile per chi voglia conoscere approfonditamente le varie fasi della preparazione di molte ricette romane.
[4] Un celebre esempio di banchetto sontuoso e stravagante è quello della cosiddetta Cena Trimalchionis, lungo racconto che occupa ben 52 capitoli (su 141 rimastici in totale) del Satyricon di Petronio. Questa cena, offerta dal ricchissimo liberto Trimalchione, è caratterizzata da vivande sorprendenti e da moltissime trovate che vogliono far divertire i convitati. Ma l’ironia di Petronio (anche se la sua identità è a tuttoggi incerta, è di certo un conservatore) riesce a trasformare questa ostentazione di opulenza in una grottesca esibizione del cattivo gusto dei nuovi ricchi di Roma.
[5] v. 51: inulas amaras: inula corrisponde forse al greco helénion, di solito reso con “elenio” o “enula”.
[6] La famosa salsa di pesce chiamata garum (ma i suoi nomi sono molteplici: oxygarum, muria, allec, liquamen) è usata moltissimo nelle cucine romane. Preparata con un lungo procedimento (i pezzi e le interiora dei pesci vengono mescolate, macinate e lasciate fermentare), viene poi versata in botti e conservata nelle cantine. Il garum è usato come condimento su quasi tutte le vivande cucinate a Roma e i cuochi, se sono abili, devono saper dosare bene la quantità del garum sugli alimenti. Il garum più richiesto è di certo quello iberico, ma questa salsa di pesce viene prodotta in molti altri centri del mondo antico, tra i quali si distingue Pompei. Il costo di un’anfora di garum iberico può essere estremamente elevato. Inutile dire che oggi, per il gusto di noi moderni, qualsiasi cibo condito con il garum sarebbe insopportabile, praticamente immangiabile.
[7] Per quanto riguarda la produzione di cereali non bisogna poi dimenticare la Sicilia, vero e proprio granaio dell’impero. In relazione ai problemi di corruzione legati all’agricoltura praticata in Sicilia, importante è il contributo portato da Cicerone con l’orazione De frumento, seconda parte della Actio secunda in Verrem (70 a.C.).
L'ALIMENTAZIONE NEL MEDIOEVO
Il cibo ha avuto un ruolo centrale nella storia dell’umanità. Parlare dell’alimentazione nel Medioevo significa affrontare un aspetto fondamentale della società del periodo, in cui a brevi fasi d’abbondanza si alternano periodi di carestia. Il forte senso di insicurezza, di precarietà e di paura che pervade gran parte di questa fase storica crea un atteggiamento nei confronti del cibo molto particolare. E, in effetti, esso diviene un vero e proprio status symbol: chi mangia ha potere, e mangiare per chi è affamato significa compiere un’azione esagerata, vorace, quasi violenta. I religiosi possono mangiare ma si autoreprimono, secondo la dottrina cristiana che stigmatizza la gula tra i peccati: l’alternanza di privazione e abbondanza accresce, come afferma lo studioso Leo Moulin, "l’ossessione del cibo, l’importanza del mangiare e, come contropartita, la sofferenza (e i meriti) rappresentati dalle mortificazioni alimentari". Durante il Medioevo non solo il cibo, come dice lo storico Massimo Montanari ma "anche la fame diventa oggetto di privilegio".
Il cibo dei contadini
È dopo il Mille che la ricerca del cibo diviene più difficile: l’aumento considerevole di popolazione, la diminuzione delle aree da mettere a coltura, la sempre più invasiva presenza sul territorio delle bannalità signorili, come riserve di pascolo, di caccia e di pesca, rende la vita dura ai contadini. La carne scarseggia, diviene sempre più pregiata, sinonimo di abbondanza e di prosperità. I pochi animali domestici sono considerati bestie da fatica, essenziali per svolgere il gravoso lavoro nei campi. Aumenta quindi il consumo di cereali, dalla segale al grano saraceno: il termine companatico, che si diffonde proprio in questo periodo, sta a indicare il condimento, ciò che accompagna il pasto basato ormai quasi esclusivamente sul pane.Esso è presente a ogni pasto, di tutte le varietà e colori: d’orzo, di spelta, di segale, di castagne. Spesso, la tonalità differente indica l’appartenenza a una precisa fascia sociale, oppure a una certa area geografica. Nei centri urbani, invece, si diffonde l’uso del pane di grano duro, più chiaro di quello mangiato nelle campagne. Il vino, secondo la tradizione greco-romana, rimane un alimento diffuso anche tra le classi più povere: è nutriente, rende più allegri, si può usare come anestetico, tutti ottimi motivi perché anche i ceti privilegiati ne favoriscano il consumo.La tavola di chi vive dei prodotti della terra non può non prevedere la presenza delle verdure dell’orto, dal cavolo alle zucchine, dalle cipolle agli spinaci. Piatto consueto sono, infatti, le zuppe di verdure di stagione, spesso mescolate ai legumi: ceci, fave, lenticchie, facili da essiccare e ricche di proteine, accompagnano frequentemente i pasti sostituendosi alla carne. Essa, in prevalenza bianca, è destinata ai giorni di festa: polli, galline, qualche coniglio rappresentano l’unica variante più sostanziosa per la classe dei lavoratori della terra. Le erbe aromatiche, tipiche dell’area mediterranea, dal timo al rosmarino, dalla nepitella al basilico, insieme al poco grasso e all’olio arricchiscono queste semplici pietanze, che stanno alla base dell’alimentazione contadina.
Il cibo dei potentiUna delle rappresentazioni tipiche della società signorile medievale è il momento del banchetto. Sulla tavola imbandita, diverse qualità di carni arrostite stanno a indicare il cibo preferito dal ceto nobiliare, dai potenti che giudicano una debolezza l’astensione volontaria, segno di umiliazione e di perdita del proprio rango: nei documenti dell’epoca, essa equivale all’obbligo di deporre le armi e quindi a una totale perdita d’identità. Del resto, lo stesso Carlo Magno, stando al suo biografo Eginardo, è mangiatore quotidiano di arrosti, nonostante in tarda età soffra di gotta e i medici gli consiglino di passare a piatti più leggeri.Attraverso i libri di contabilità del tempo che ci sono pervenuti, siamo in grado di mettere a fuoco un mondo di aristocratici abituato a bere abitualmente vino, ad accompagnare le carni saporite bianche - capponi, oche, galline, polli - e rosse - manzo, maiale - ma in special modo la selvaggina e gli agnelli con pane di grano, uova e formaggi. Le verdure e i legumi, sconsigliati dai medici del tempo agli stomaci raffinati in quanto poco digeribili, hanno un ruolo marginale sulle tavole dei ricchi, così come la frutta.Il miele, unico dolcificante conosciuto - lo zucchero di provenienza araba non è ancora diffuso - è invece consumato in abbondanza. La modalità di cottura più diffusa è la bollitura, che utilizza molte spezie provenienti dalle Indie come il pepe, il coriandolo, la cannella, la noce moscata, i chiodi di garofano, ormai difficili da trovare e assai costose, che insaporiscono i cibi e le bevande, ritardano la putrefazione e addolciscono i sapori aciduli. Anche le erbe aromatiche sono molto in uso: in questo modo la carne, soprattutto selvaggina, dai cervi ai caprioli, dalle anatre ai fagiani, diviene meno dura e acquista maggiore sapore, anche perché accompagnata spesso dal lardo. Gli stessi arrosti sono prima bolliti, e solo in un secondo tempo vengono fatti a pezzi e infilzati nello spiedo.
Il cibo dei monaciL’idea della privazione del cibo, di un regime alimentare sorvegliato ed essenziale sta alla base della concezione di vita monastica diffusa nel Medioevo. Proprio per questo, in tutte le Regule che ci sono pervenute, da quella di Benedetto a quella di Giovanni Cassiano, il tema del cibo ricorre costantemente e risulta di fondamentale importanza. Se l’abbondanza di cibo è simbolo del potere delle armi, il "digiuno" diviene sinonimo di spiritualità e misticismo. Nella cultura medievale, il corpo impedisce l’elevazione verso dio, tenendo ancorato l’uomo a desideri e pulsioni che vanno costantemente mortificati. La carne è il primo alimento che deve essere bandito, perché meglio interpreta la forza e la potenza guerriera. In realtà, questo vale per il primo monachesimo, più severo e rigoroso nel rispettare i precetti dell’ordine.La carne, bandita dunque inizialmente dalle mense e sostituita da pesce, legumi, uova e formaggi, tende a ricomparire a partire dall’XI secolo, anche perché più consistente comincia a essere la presenza del ceto aristocratico tra i religiosi. Nei giorni di festa, che non sono pochi nel calendario liturgico, la carne, soprattutto di maiale, è presente nei pasti dei monaci cucinata in maniera differente. Compare anche nelle dispense, conservata sotto sale, essiccata o insaccata. Stando alle fonti dell’epoca, nell’Abbazia di Cluny, una delle più importanti dell’Occidente cristiano, due sono i regimi alimentari che si alternano durante l’anno, uno invernale e uno estivo. Mangiare coincide con un momento collettivo, e i monaci si ritrovano in refettorio una volta nei giorni feriali e due in quelli festivi.Il pranzo, che coincide con il mezzogiorno, prevede due piatti caldi: il potagium di legumi e la minestra di verdura, e un terzo piatto, il generale o la pietanza, serviti a giorni alterni durante la settimana, che porta in tavola uova, formaggi, verdure. Il vino e il pane bianco non mancano mai. Nel periodo estivo i pasti sono due, poiché aumentano le ore di veglia e di lavoro. La cena, piuttosto frugale, si basa su ciò che resta del pranzo insieme ad un pò di frutta di stagione.Dopo il Mille, questo regime così severo tende poco alla volta a divenire più elastico: si moltiplicano le cose da fare, le occupazioni da svolgere, soprattutto di tipo amministrativo. I patrimoni da gestire si accrescono, in seguito agli imponenti lasciti testamentari, ai possedimenti che si espandono e che allontanano il monaco dalla dimensione frugale e semplice cui è abituato, dettata dalla regola del proprio ordine. Così il momento del pasto e il regime alimentare si modificano: la semplicità delle origini è superata, per lasciare spazio all'abbondanza e alla varietà dei cibi. Le cucine, sempre più spaziose e dalle dispense cariche di prodotti pregiati, divengono luogo di prosperità, di piacere: la gula si incontra con la luxuria, i due peccati condannati dal cristianesimo che tanto spesso l'immaginario medievale accomuna, così come tanta letteratura del tempo, da Chaucer a Boccaccio, ci ha tramandato.
Il Vino
I frutti fermentano spontaneamente; quindi la vinificazione non è altro che un perfezionamento di questo processo naturale e nel tempo si è diffusa in tutte le parti del mondo in cui gli uomini vivevano in prossimità di viti selvatiche. Un tipo di vite, la Vitis vinifera, produce la quasi totalità del vino che si beve nel mondo ai nostri giorni. Si pensa che questa varietà abbia avuto origine in Transcaucasia (le attuali Georgia e Armenia). Le prime testimonianze della coltivazione della Vitis vinifera risalgono al IV millennio a.C. nell'antica Mesopotamia, mentre un'anfora contenente tracce di vino trovata in Iran è stata datata intorno al 3500 a.C. In seguito la cultura del vino ha raggiunto l'Europa tramite l'Egitto, la Grecia e la Spagna. Il vino aveva un ruolo importante nei costumi della civiltà greca e di quella romana. I greci portarono le proprie viti e iniziarono la produzione del vino nelle loro colonie nel Sud dell'Italia; i romani, poi, praticarono la viticoltura durante tutta la durata dell'impero. Per quanto riguarda l'inizio della viticoltura in Francia, vi sono due ipotesi contrastanti: le testimonianze attualmente disponibili suggeriscono che i coloni greci di Massalia (l'attuale Marsiglia) vi importarono il vino; alcuni studiosi credono, invece, che, già prima dell'arrivo dei greci, i celti avessero iniziato la viticoltura, sebbene a suffragare questa ipotesi esistano come prova solamente semi di vite selvatica. In epoca romana la Gallia divenne una fonte talmente importante di vino che si promulgarono leggi per tutelare i produttori italici.
Produzione del vino dal Medioevo a oggiDopo la caduta dell'impero romano e la dominazione di popolazioni germaniche, nei territori precedentemente occupati dai romani la produzione di vino diminuì. Divenne, in alcuni casi, un'attività riservata ai monasteri, in quanto il vino era considerato indispensabile per la celebrazione eucaristica. Fra il XII e il XVI secolo, tuttavia, la produzione di vino tornò nuovamente a diffondersi e per tutto questo periodo il vino fu il principale prodotto da esportazione della Francia. Durante il XVII secolo si sviluppò la produzione di bottiglie e ritornò in auge l'uso del tappo di sughero (dimenticato dal tempo dei romani) che rese possibile una migliore conservazione del vino. Molti fra i migliori vitigni della regione di Bordeaux furono sviluppati tra la fine del XVII e l'inizio del XVIII secolo dai signori locali; fu allora che si incominciò a produrre lo champagne, mentre commercianti inglesi parallelamente svilupparono la coltura delle viti nella valle del Douro in Portogallo.
Per quanto riguarda i territori extraeuropei, in Cile si incominciò nel XVI secolo, in Sudafrica nel XVII, in America nel XVIII e in Australia nel XIX. Dal 1863 in poi, la viticoltura europea subì la devastazione della fillossera, un insetto che provoca il disseccamento delle foglie e attacca le radici della vite. La fillossera proveniva dall'America, e fu proprio da lì che giunse anche la soluzione del problema: dal 1880 in poi si innestarono vitigni americani resistenti alla fillossera sulla Vitis vinifera europea. Durante la prima metà del XX secolo, la coltivazione della vite e la produzione di vino subirono un crollo, a causa dei conflitti politici e delle guerre, contrassegnato anche da problemi di adulterazioni, frodi e sovrapproduzione. La sovrapproduzione rimane ancora oggi un grave problema, fondamentalmente irrisolto per tutta l'Europa, anche se, specie per i prodotti DOC (a denominazione di origine controllata) e DOCG (a denominazione di origine controllata e garantita), vengono stabilite quantità massime di produzione per ettaro. La seconda metà del XX secolo ha, invece, segnato importanti progressi tecnici sia nella viticoltura, sia nella vinificazione e ha visto una crescente diffusione di queste attività in tutto il mondo.